domenica 15 giugno 2008

Arteterapia in carcere e con le tossicodipendenze

Con la terapia artistica i suicidi calano del 20%
Uno studio nelle carceri di Padova e Viterbo

Gazzetta del Mezzogiorno, 5 dicembre 2002
I detenuti delle carceri di Viterbo e Padova riscoprono i colori della vita col disegno e l’arteterapia: dopo tre anni di attività sono diminuiti del 20% i tentativi di suicidio e gli atti di autolesionismo. È quanto è emerso a Roma al convegno "Arteterapia e carcere" in cui sono stati illustrati i risultati del progetto sperimentale, voluto da Sebastiano Ardita e da Bruna Brunetti del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) del Ministero di Giustizia, e presentato dal prof. Vittorino Andreoli.
Per la prima volta nel mondo viene attuato un progetto di questo tipo, secondo quanto hanno spiegato gli esperti, in cui i detenuti scoprono una nuova forma di linguaggio. Il linguaggio del disegno e della scultura che, come ha spiegato lo psichiatra Vittorino Andreoli, è una forma di espressione che va privilegiata in una società tutta incentrata sul linguaggio parlato e scritto.
L’esperimento pilota ha coinvolto 300 detenuti delle carceri di Viterbo e Padova. L’esperimento è stato un successo, secondo il commento della dottoressa Anna Rita Giaccone della Asl di Viterbo la quale ha espresso la speranza che tale progetto continui nel tempo e sia esteso ad altre carceri.

Colori per dimenticare il tempo della droga

Il Mattino di Padova, 5 dicembre 2002
Sono i detenuti tossicodipendenti del carcere di Padova, assieme a quelli di Viterbo, i protagonisti di un esperimento che non ha precedenti al mondo: grazie all’arteterapia, a un barattolo di colori e al disegno, hanno dato un nuovo senso alla vita. Dopo tre anni di attività, tra di loro sono diminuiti del 20% i tentativi di suicidio e gli atti di autolesionismo.
I risultati della ricerca sono stati presentati ieri a Roma al convegno "Arteterapia e carcere"; il progetto sperimentale è stato promosso da Sebastiano Ardita e da Bruna Brunetti del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) del ministero di Giustizia, e presentato dal professor Vittorino Andreoli. L’esperimento, coordinato dal dottor Daniele Berto coinvolgendo a Padova 150 detenuti, è stato reso possibile grazie al dottor Carmelo Cantone, all’epoca direttore del Due Palazzi (attualmente a Rebibbia) e dal suo successore Salvatore Pirruccio.
I detenuti sono stati accompagnati alla scoperta di una nuova forma di linguaggio: il linguaggio del disegno e della scultura che, come ha spiegato Andreoli, è una forma di espressione che va privilegiata in una società tutta incentrata sul linguaggio parlato e scritto. I detenuti (di cui quasi il 40% extracomunitari) di età media di 35 anni e un passato di tossicodipendenza e alcolismo, dovevano esprimere i loro disagi attraverso il disegno e la scultura. Le loro opere, decodificate da esperti, hanno evidenziato il percorso introspettivo degli autori. Alla fine i detenuti tornati in libertà, secondo quanto riferito dagli esperti, hanno avuto un miglior rapporto con il Sert nella delicata fase della prosecuzione delle cure.
La letteratura scientifica considera ormai la tossicodipendenza come un fenomeno prodotto da più fattori convergenti, di natura psicologica, educativa, sociale e culturale. Il fattore di rischio più determinante è individuato nella frattura precoce con il mondo emozionale. L’Arteterapia, secondo gli esperti, ha dato risultati così importanti perché disegno e colore rispondono al bisogno del tossicodipendente di entrare in contatto con il suo mondo emozionale mentre trasformare il "tempo di pena" in "tempo di vita" ha portato ricadute positive.
Nel carcere, l’Arteterapia si configura come uno spazio mentale vitale; è di facile applicazione e dunque può essere utilizzata a favore di qualsiasi soggetto tossicodipendente a prescindere dalla cultura, dallo status sociale e dalle provenienza: gli stranieri, in particolare, sono agevolati perché con questo tipo di terapia non devono superare l’ostacolo della lingua.
Fonte: http://www.ristretti.it/areestudio/droghe/progetti/arteterapia.html

Forma e colore entrano in carcere.E il tossicodipendente scopre se stesso
Arteterapia: dialogo stretto di procedure e teoria artistica con le ricerche della psicoanalisi e la tradizione clinica della psicologia.
In carcere, fra i tossicodipendenti, un calo del 20 per cento di tentativi di suicidio e atti di autolesionismo. E più disponibilità al recupero anche dopo la carcerazione. Tutto per merito di un barattolo di colore. I segnali positivi vengono da due carceri, quello di Viterbo e quello di Padova, dove è stato attuato per tre anni, per la prima volta al mondo, un progetto di Arteterapia voluto dal consigliere dottor Sebastiano Ardita e dalla dottoressa Bruna Brunetti del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (DAP) del Ministero di Giustizia. La tecnica che ha portato la speranza in carcere, utilizza forme e colore come terapia per aiutare il tossicodipendente detenuto ad esprimere il proprio vissuto e i propri sentimenti. “Il linguaggio di forma e colore – dice lo psichiatra Vittorino Andreoli – va privilegiato in una Società tutta incentrata sul linguaggio parlato e scritto”. “In primo luogo – dice l’arteterapeuta Achille De Gregorio – abbiamo messo il detenuto nella possibilità di sostenere un lavoro introspettivo e di regolazione delle emozioni, sostenuto in questo dall’arteterapeuta e dallo staff psico-educativo. In secondo luogo, abbiamo posto il detenuto nella condizione di visualizzare pensieri e sentimenti, desideri ed aspirazioni senza l’uso della parola. Abbiamo privilegiato lo strumento dell’immagine come sostituto della parola per una serie di motivi: la constatazione che gran parte dei tossicodipendenti detenuti sono extracomunitari e quindi con evidenti difficoltà di comunicazione verbale; la considerazione che nel soggetto tossicodipendente, extracomunitario e non, agisce un complesso meccanismo di difesa che ostacola la riabilitazione. L’Arteterapia permette di aggirare i meccanismi di difesa, pur rispettandoli, aprendo possibilità di dialogo senza che ci si senta minacciati o spiati. E’ la forza dell’arte che se tanto rivela altrettanto nasconde”.“Un barattolo di colore costa meno di un antidepressivo. La ricerca – dice il dottor Alfredo De Risio, psicoterapeuta e coordinatore scientifico del progetto – effettuata, previo consenso informato, nelle due realtà penitenziarie di Viterbo e Padova su un campione di 300 detenuti, rappresentativo della totalità della popolazione tossicodipendente reclusa, ha posto l'accento sullo strumento dell'Arteterapia, supportato da precise metodologie psicodiagnostiche e di intervento psicologico. L'atelier di Arteterapia inserito in questo contesto è stato di supporto all'individuo in difficoltà, mettendolo in condizione di confrontarsi e facendolo sentire contenuto e contenente”.I risultati positivi, ottenuti nel carcere di Viterbo sono stati illustrati dalla dottoressa Anna Rita Giaccone, direttore del Ser.t. di Viterbo dove ha preso le prime mosse l’esperimento. Una scommessa vinta a Viterbo come pure nel carcere di Padova, come ha riferito al Convegno il dottor Daniele Berto, responsabile U.F. Carcere ASL n. 16 di Padova il quale ha detto che: “I risultati dell’esperimento con l’Arteterapia nel carcere di Padova, sono stati positivi. Siamo ancora nella fase preliminare dell’analisi ma si può dire che sono diminuiti i tentativi di suicidio e gli atti di autolesionismo. Questo è avvenuto principalmente nei detenuti tossicodipendenti al di sotto dei 35 anni. La ricerca ha anche evidenziato che i detenuti tornati in libertà hanno avuto un miglior rapporto con il Ser.T. nella delicata fase della prosecuzione delle cure”. “L’arte – ha detto il professor Sergio De Risio dell’Università Cattolica – può diventare un’importante occasione per favorire la riabilitazione e la socializzazione dei detenuti. In particolare attraverso l’immagine, adeguatamente interpretata, è possibile facilitare l’espressione e la comunicazione delle ansie e delle problematiche psicologiche del detenuto”.

Intervista a Vittorino Andreoli - Psichiatra
Forma e colore come terapia. Una modalità che va privilegiata e alla quale va prestata la massima attenzione in una Società del linguaggio parlato e scritto”. Sono parole del professor Vittorino Andreoli, psichiatra, che ha aperto il Convegno a Roma su “Arteterapia e carcere” con una lettura magistrale su “La comunicazione silenziosa in carcere”.

Forma e colore in una Società del linguaggio parlato e scritto. E in carcere forma e colore vengono utilizzati come terapia nei confronti dei tossicodipendenti. Nel carcere è ancora più importante. E questo perché nel chiuso di un Istituto di pena le comunicazioni non verbali hanno un particolare valore perché permettono di dialogare senza parlare. Nel carcere è meglio star zitti. Anche il parlare può essere pericoloso. Basta una parola di troppo per crearsi un problema con il vicino, con altri detenuti anche non vicini o anche con chi ha il compito di sorvegliare. Le parole possono andare in rotta di collisione con qualche norma del regolamento. E’ ben noto che nel carcere è nata storicamente la comunicazione pittorica e grafica. E’ nel 1860 che si comincia a dare attenzione a forma e colore. L’avvio è rappresentato dalla “lettura” del linguaggio dei bambini attraverso i loro disegni, il primo è Aldo Venturi. E poi la Scuola positiva di Lombroso che più tardi pone l’accento sulla “lettura” dei linguaggi non verbali. E arriviamo ai matti, che non erano detenuti in carcere ma erano detenuti in ospedale. Grande interesse per il linguaggio non verbale dei bambini che hanno i genitori come carcerieri . E in modo particolare, come il Convegno di Roma dimostra, in carcere, dove ci sono i carcerieri veri.

Quindi è importante aver introdotto in carcere forma e colore con un criterio nuovo di aiuto al detenuto, nel caso particolare tossicodipendente?
Mi sembra che sia un’idea da perseguire. L’idea della comunicazione non verbale che privilegia il disegno, i graffiti e quanto altro sia espressione.

Intervista a Achille De Gregorio Arteterapeuta di Milano

Cos’è l’Arteterapia? La domanda è per il Maestro Achille De Gregorio, arteterapeuta, supervisore del progetto “Arteterapia e carcere”, direttore della Scuola di Specializzazione in Arteterapia “ArTeA” di Pavia.
Per capire l’Arteterapia è necessario conoscere il linguaggio grafico-plastico (disegno, pittura, scultura, foto) e accettare il suo codice comunicativo, perché entrambi fondamentali e utilizzati nella relazione di cura.Una premessa doverosa è dire che poco ha a che fare con quelle attività espressive tradizionalmente usate nelle situazioni d’intrattenimento sociale: pedagogia artistica, animazione creativa, performances artistiche, esposizioni di svantaggiati, scoperta di talenti, cultura dell’art brut, psicopatologia dell’espressione.

Ma allora, dottor De Gregorio, cosa è l’Arteterapia?
E’ una disciplina definita terapeutica perché coniuga le procedure e teoria artistica con le ricerche della psicoanalisi e la tradizione clinica della psicologia. Integrare l’arte con la psicologia o con la pedagogia, con l’antropologia o con la comunicazione non verbale in una nuova disciplina. Una sintesi complessa che prefigura una nuova figura professionale, clinica e artistica, per intervenire a favore della persona in difficoltà.

Come nasce?
Si precisa alla fine degli anni ‘40-‘50 nei Paesi anglosassoni, ma potremmo risalire alle origini confuse e fuorvianti dei laboratori espressivi nei manicomi europei già dall’inizio del 1900. Opinione comune è collocarla per alcuni decenni soprattutto nell’area dell’handicap e della psichiatria.Alla fine degli anni ’80, in Italia, si comincia ad applicarla nell’area dell’emarginazione sociale e con i tossicodipendenti, con altre nuove utenze, quali ammalati di Aids, oncologici, minori a rischio, disturbi alimentari, cardiopatici, affetti da Alzheimer.

E si arriva al carcere.
Si, si arriva all'Arteterapia nel carcere. Ci sono stati in tal senso sporadici esperimenti in Gran Bretagna, e in Italia nel carcere di Monza e in quello di Como. Si trattava di pionerismo. Altra importanza ha il progetto, concreto, di ricerca e su base scientifica, che ci vede protagonisti, coordinati dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (D.A.P.), e che viene presentato al Convegno di Roma. Una grande occasione per applicare e validare l’Arteterapia come strumento di diagnosi e di trattamento per oltre 300 detenuti.Il progetto ha riguardato per l’80% tossicodipendenti ma sono stati inseriti nei gruppi anche alcolisti e detenuti con particolari problemi.

Quale lo scopo?
Un progetto triennale basato sull’intervento diretto con i detenuti, allo scopo di verificare le specificità utili dell’Arteterapia come attività trattamentale nelle carceri italiane. Inoltre, ha significato anche formare gli operatori delle carceri (agenti di polizia penitenziaria, psicologi, educatori) a questo nuovo trattamento; ed infine, creare le condizioni per la continuità della proposta negli impieghi futuri, per i tossicodipendenti e gli alcolisti, sul territorio e in integrazione con i servizi delle ASL.

In particolare, per quanto riguarda il tossicodipendente detenuto?
In primo luogo abbiamo messo il detenuto nella possibilità di sostenere un lavoro introspettivo e di regolazione delle emozioni, sostenuto in questo dall’arteterapeuta e dallo staff psico-educativo. In secondo luogo, posto il detenuto nella condizione di visualizzare pensieri e sentimenti, desideri ed aspirazioni senza l’uso della parola. Abbiamo privilegiato lo strumento dell’immagine come sostituto della parola per una serie di motivi. La constatazione che gran parte dei tossicodipendenti detenuti sono extracomunitari, quindi con evidenti difficoltà di comunicazione verbale. La considerazione che nel soggetto tossicodipendente, extracomunitario e non, agisce un complesso meccanismo di difesa che ostacola la riabilitazione. L’Arteterapia permette di aggirare i meccanismi di difesa, pur rispettandoli, aprendo possibilità di dialogo senza che ci si senta minacciati o spiati. E’ la forza dell’arte che se tanto rivela altrettanto nasconde.

A cosa serve, al soggetto in trattamento, l’Arteterapia?
Il detenuto, in quest’approccio, ha la possibilità di guardarsi dentro e mettere a fuoco le immagini interne “usando le mani” per concretizzare i propri pensieri. Ha la possibilità di rendere visibile agli altri l’immaginario, attraverso l’immagine, con i disegni, i dipinti, i collage, le sculture, i graffiti. Aggirando la tendenza al non voler dire o al non farsi capire, al mistificare o al commediare, possiamo avviare interventi di riabilitazione o di psicoterapia. L’Arteterapia come potente mezzo che mette a fuoco e rende visibili i pensieri aiuta il detenuto a farsi consapevole e accettare la relazione d’aiuto.

Quale il percorso?
Questo progetto ha visto un’iniziale fase di progettazione e di selezione con l’utilizzo di test per la individuazione dei 300 detenuti che sono stati coinvolti. Il singolo detenuto è stato, successivamente, seguito sia in incontri di “gruppo propedeutico” condotti da psicologi o da medici con terapie verbali, sia, nel laboratorio d’Arteterapia gestito dagli arteterapeuti. Entrambe le fasi hanno compreso ogni quindici giorni la supervisione, sull'Arteterapia e i detenuti e sull’andamento del progetto.La fase finale ha previsto il retesting dei detenuti e la rielaborazione dei risultati tra tutti gli operatori coinvolti.

Cosa si “tira fuori” dal soggetto in trattamento?
Emerge un puzzle d’immagini che descrive la personalità intera dell’individuo. Emergono fatti salienti, episodi del passato e dell’infanzia. Osserviamo nelle immagini e nelle sculture il vissuto del carcere, le dinamiche relazionali, la cella, la solitudine, l’aggressività, la sessualità, l’angoscia, ecc. Ragionando su manufatti e visioni abbiamo accesso alle paure concrete e alle aspirazioni irrealizzabili del soggetto; come si prefigura il futuro, cosa lo aspetta fuori, gli affetti che non troverà, il lavoro, la ricaduta nello spaccio, ecc.

E quindi favorisce il recupero?
Certamente. Si è notato in questo progetto che quando il trattamento del detenuto comprende diverse figure e diversi approcci, arteterapeutico, psico-educativo, la relazione d’aiuto si fa più vera, e diventa più profonda riuscendo ad aprire varchi per elaborare pensieri indicibili o storie nascoste dalla colpa. Ecco perché è importante l’Arteterapia in carcere .

Intervista a Sergio De Risio Ordinario Istituto di Psichiatria e Psicologia alla “Cattolica” di Roma

Arte come terapia. Ma non solo. L’arte può diventare un’importante occasione per favorire la riabilitazione e la socializzazione dei detenuti. In particolare attraverso l’immagine, adeguatamente interpretata, è possibile facilitare l’espressione e la comunicazione delle ansie e delle problematiche psicologiche del detenuto. Ne parliamo con il professor Sergio De Risio, direttore dell’Istituto di Psichiatria dell’Università Cattolica Sacro Cuore di Roma.

Quale l’importanza e la valenza terapeutica dell’espressione artistica per i detenuti?
I detenuti vivono una forte privazione di relazioni significative e anche spontaneamente, se hanno inclinazioni artistiche, tendono a cercare nel disegno o in altre forme espressive, un canale di comunicazione per superare l’ansia legata alla condizione carceraria.

Nel caso degli esperimenti al centro del Convegno, il singolo individuo è invitato ad esprimersi attraverso l’immagine. Questo aiuta i detenuti?
Certamente. E’ quindi importante creare in carcere la possibilità di avere a disposizione uno spazio in cui il detenuto possa disegnare sotto lo sguardo attento di uno psicoterapeuta, in grado di interpretare forme e colori.

Come si svolge una seduta di Arteterapia?
Lo psicoterapeuta invita le persone a disegnare liberamente, senza suggerire alcun tema, proprio per lasciare spazio all’emergere di nuclei di sofferenza e di angoscia più o meno consapevoli e che a volte sono almeno in parte responsabili del crimine commesso. Il fatto di poter esprimere queste problematiche è già di per sé catartico ma è ancora più significativo se avviene alla presenza di uno psicoterapeuta che incoraggia tutti ad esprimersi, anche se non hanno particolari doti artistiche. Essenziale anche la possibilità di spiegare e interpretare quello che viene disegnato. Anche chi non disegna viene invitato a commentare e ad esprimere le sensazioni legate al disegno fatto dagli altri.

E’ importante il ruolo del gruppo?
Si, anche perché favorisce la risocializzazione, aiuta i detenuti a sentirsi meno esclusi, a ritrovare il piacere di avere contatti con altre persone. Magari anche a prendere per la prima volta una matita o dei colori per fare un disegno, proprio come fanno i compagni di cella, che sono uno dei pochi punti di riferimento in una situazione di reclusione. Questo serve molto a migliorare la vita in carcere, a promuovere scambi relazionali, agevolando, poi, il reinserimento nella Società dopo che si è scontata la pena. L’Arteterapia aiuta i detenuti a ritrovare la libertà di esprimersi e a uscire dall’isolamento, ristabilendo rapporti con gli altri.

Perché è importante usare le immagini, il disegno?
Perché costituiscono un mezzo di comunicazione immediata e favoriscono la proiezione di contenuti inconsci, proprio come le immagini che illustrano i nostri sogni. Le parole richiedono invece un’elaborazione intellettuale notevole, anche se poi è proprio attraverso le parole dello psicoterapeuta che si ritrova il senso più profondo dei disegni. In particolare viene prestata attenzione alle forme e all’uso del colore e a come viene disegnato l’oggetto. Minore poi è la capacità “tecnica” cioè l’abilità nel disegnare e più affiorano i contenuti, le sofferenze interne. Pensiamo anche al fatto che alcuni test proiettivi spesso si basano proprio sui disegni, anche se in questo caso non viene chiesto di disegnare un albero o la propria famiglia ma il soggetto è libero.

L’Arteterapia può essere applicata anche in altri casi di disagio?
Si, può essere un valido strumento terapeutico anche in varie patologie psichiatriche anche gravi. In effetti l’espressione artistica è in grado di rilevare in ognuno di noi molte più risorse interne di quanto pensiamo coscientemente. E’ in grado di attivare linguaggi diversi da quello verbale, come del resto sa bene l’artista che attraverso i suoi disegni trova naturalmente una sua forma di autoterapia. L’Arteterapia è molto utile per psicotici, schizofrenici e persone che soffrono di anoressia.

Fonte: http://www.salute-7.it/primopiano.html

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